Nel blog che ho iniziato da poco in genere scrivo di scienza e di solito, quando ho finito di documentarmi su qualcosa, mi trovo ad avere le idee molto più chiare sull’argomento in questione; ora che ho finito di concepire questo articolo, invece, ho le idee più confuse di quanto le avevo prima, almeno riguardo all’opportunità o meno per me, ad esempio, di pretendere di essere chiamata “ingegnera” piuttosto che “ingegnere”. Magari, chissà, è giusto così, non avere cristalline certezze riguardo a qualcosa che riguarda un tema molto delicato come quello del divario di genere, altrimenti detto gender gap, per i non anglofobi.
Da un po’ mi porto dietro questo dilemma esistenziale: “Ingegnere o ingegnera, cosa sono io?” e in questa giornata del 25 aprile vorrei liberarmi di tutto il fardello di pensieri che mi attanaglia.
Ovviamente è dal periodo di Sanremo 2021 che questo dubbio atroce ha assunto più vigore, indovinate perché?

In realtà già poco tempo prima di Sanremo era cominciata la mia crisi di identità, quando ho posto un quesito in un gruppo Facebook di chimici, presentandomi come “un’ingegnere” e sentendomi replicare che con la chimica me la cavavo, ma che di italiano non ci capivo un bel niente, perché se uso l’articolo con l’apostrofo allora dovevo usare “ingegnera”.
E io che pensavo di potermela cavare con un apostrofo rosa tra l’articolo indeterminativo e la mia qualifica!
Il chimico in questione che mi ha fatto quel commento era stato un po’ acido, ma aveva ragione: scrivere “un’ingegnere” è un errore, perché “ingegnera” in italiano esiste, sia nei dizionari che come possibilità contemplata nelle nostre regole grammaticali (è una parola che si declina, proprio come succede a “infermiere”) anche se non è troppo usato. Citando Massimo Birattari: scrivere un’ingegnere è esattamente come scrivere un’amico (ingegnere non è ambigenere come insegnante, e non scriveresti un’infermiere per indicare un’infermiera, no?)
Attenzione quindi, questo non lo sostengo io, che non sono una linguista, ma persone che di professione fanno i linguisti e della cui autorevolezza mi fido , quindi questo articolo non vuole assolutamente mettere in dubbio ciò che sostengono degli studiosi che di sicuro ne capiscono molto più di me: a ognuno il suo mestiere!
A partire da questo presupposto – che ingegnera esiste – ogni donna che possiede la laurea in ingegneria e l’abilitazione a operare come ingegnere (ingegnera?) è però a mio parere libera di chiamarsi come vuole. Perché la penso così?
Per comodità, quando vorrò intendere ingegnere o ingegnera riferito a una donna nell’ambito di questo articolo, ho deciso che userò la schwa, scrivendo ingegnerə: sinceramente non ho ancora capito se questo simbolo mi piace o no (un po’ mi tenta, per comodità e perché sembra meno discriminante del plurale maschile inclusivo, un po’ mi spaventa, proprio come l’asterisco, perché ho paura che si avvicini un po’ a questa tendenza), di sicuro però mi torna utile in questa occasione.
Potrebbero esserci molti errori in questa mia riflessione, ma ho deciso di condividerla lo stesso, perché da un po’ questo è il mio motto (ho cominciato a seguire questa ragazza per i video di chimica ed è troppo simpatica) e dovrebbe essere il motto di tutte le ingegnerə, ma forse non solo il loro:
Essendo il tema molto delicato, raccolgo qui le mie esperienze e quelle di alcune colleghe sotto forma di un’intervista fatta a Margherita, un’ingegnerə fittizia che mi racconterà le sue esperienze. Margherita, altro che dolce vita…
Prima di tutto, io non faccio troppo testo, in quanto mi sono laureata in ingegneria senza voler fare l’ingegnerə, almeno senza aver mai voluto occuparmi di progettazione, cosa che nella vita ho però fatto, ma solo perché dovevo mangiare e dare da mangiare alle mie figlie: io ho sempre avuto il desiderio di difendere l’ambiente e di occuparmi di divulgazione scientifica (cosa questa che non ho mai potuto fare troppo finora, per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo spiegare qui) e ho scelto ingegneria unicamente perché era la facoltà che mi sembrava più completa e multidisciplinare, in quanto poteva darmi la possibilità di approfondire delle materie scientifiche come la matematica, la fisica, la chimica, la geologia, ma anche molte materie tecnologiche e persino l’economia e il diritto, seppur queste ultime in modo marginale.
Inoltre, ho una laurea del vecchio ordinamento in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, un’ingegneria che qualcuno definisce “tra le più facili”, sorellina minore rispetto alle ben più complicate e altisonanti “Ingegnera aerospaziale” o “Ingegneria delle telecomunicazioni”, anche se ho sostenuto le materie del biennio (cioè quelle che notoriamente costituiscono i più grossi scogli iniziali, come analisi matematica e fisica) insieme ai colleghi di queste altre specializzazioni più “ambite”, avendo a che fare con stessi programmi, stessi professori e stesso identico trattamento e in media con le stesse identiche difficoltà, quindi non credo troppo a questa stigmatizzazione per un corso di laurea che guarda caso annovera una delle più alte percentuali di studentesse tra le iscritte e di laureate.
Comunque sia io sono consapevole di essere ingegnerə più per sbaglio che per vocazione e nella mia trattazione mi baserò sull’esperienza di donne che erano fin dal principio più determinate di me a fare questo mestiere.
Negli ultimi giorni ho postato due articoli che hanno scatenato l’inferno su un gruppo di Facebook, uno su una giovane donna di origine straniera che preferisce farsi chiamare “ingegnere” piuttosto che “ingegnera” e uno su una donna araba che viene chiamata “ingegnera” da chi scrive l’articolo su di lei. Entrambi i post sono stati oggetto di accese critiche e discussioni, perdendo di vista le due donne in questione e i traguardi da loro raggiunti.
Onore a queste due donne che hanno raggiunto traguardi così importanti, indipendentemente da come vogliono essere chiamate e da come vengono chiamate.
Personalmente non mi schiero né dalla parte del partito pro-ingegnera né dalla parte del partito pro-ingegnere, perché capisco chi preferisce farsi chiamare sia nell’uno che nell’altro modo.
Riguardo a chi preferisce e ci tiene a farsi chiamare “ingegnera”, prima di tutto mi trovo d’accordo perché è corretto dal punto di vista grammaticale, e, anche se personalmente non sono convinta che un nome riesca a fare la differenza e a condizionare la realtà, perché non provare?
Questa è anche la teoria della socio linguista Vera Gheno e io spero davvero che chiamare le professioni con il loro nome corretto aiuti a cambiare la realtà.
Dalla parte delle “ingegnere” c’è inoltre una “ingegnera” davvero illustre e che stimo tantissimo, come Samantha Cristoforetti, che ha ammesso pubblicamente su Twitter di preferire chiamarsi al femminile e che nel seguente link ufficiale del sito dell’ESA viene definita “ingegnera di bordo”.
Purtroppo la descrizione comincia con il calco inglese “avida lettrice”, cosa che non mi aspetterei dal sito dell’ESA, ma così è…
Riguardo a chi preferisce e ci tiene a farsi chiamare “ingegnere”, ha tutta la mia comprensione lo stesso, perché, come spiegato molto bene nell’ultima parte di questo video (un confronto molto interessante, equilibrato e realista tra diverse donne che svolgono la professione di ingegnerə a proposito del divario di genere e del fatto che per le donne sia così difficile rompere il “soffitto di cristallo”) usare “ingegnera” sembra porre l’accento su una diversità, mentre invece si sta cercando di raggiungere la parità di trattamento e di considerazione.
Una delle ingegnerə del video fa presente che la sua professione si chiama ufficialmente “professore associato”, quindi non può chiamarla altrimenti, nemmeno volendo, e sostiene inoltre c’è una revisione del linguaggio tra nomi femminili e maschili (non solo riguardanti le professioni) che dovremo fare più ad ampio spettro, citando un famoso monologo di Paola Cortellesi.
Però è anche vero che siamo diverse, come sostengono anche le professioniste del video sopra, e non è detto che la diversità sia un difetto, ma purtroppo così viene considerato al giorno d’oggi e a questo punto voglio coinvolgere la mia amica Margherita, che ci racconta la sua esperienza.
Margherita è madre e a ogni trasferta di lavoro ha sofferto molto per la lontananza dai suoi figli. Pur avendo avuto un’istruzione simile e addirittura in qualche caso superiore a quella dei suoi colleghi non ha fatto carriera nel posto in cui lavora, forse perché ha sempre cercato di anteporre la famiglia al lavoro, nei limiti del possibile.
Margherita sostiene di avere un’amica fisica che dopo la nascita delle sue bambine ha chiesto il part time e da allora ha subito la una forte discriminazione da parte dei dirigenti della sua azienda, che cominciarono a estrometterla da tutte le riunioni più importanti e a praticare un’odiosa forma di mobbing, tanto da provocarne le dimissioni.
Margherita, invece, dopo la nascita dei suoi figli ha chiesto il part time ed è riuscita a mantenerlo, pur soffrendo per il fatto di non riuscire ad esprimersi a pieno dal punto di vista lavorativo nell’azienda dove lavora da anni, in quanto non ha le possibilità che hanno i suoi colleghi maschi o le sue colleghe senza figli di rimanere troppo a lungo al lavoro o di fare lunghe trasferte.
Margherita riferisce di aver sentito la disapprovazione di due sue colleghe, senza figli, che hanno avuto la possibilità di “scavalcarla” lavorativamente, per le ragioni esposte sopra, che nel frattempo sostenevano che “quando avrebbero avuto figli non avrebbero assolutamente lasciato condizionare la loro carriera da questo evento”, affermandolo con assoluta certezza (mentre Margherita faticosamente cercava di mantenere il suo lavoro, con un livello inferiore al loro, e di essere al contempo una mamma presente): le stesse colleghe, dopo poco tempo dalla nascita del loro primo figlio, non hanno nemmeno chiesto il part time: si sono direttamente dimesse.
Margherita riferisce anche di aver cominciato a lavorare per alcuni anni come ricercatrice presso l’università e di aver avuto una donna come superiore che si è comportata in modo tremendo con lei, tanto che proprio in quegli anni le si è scatenata una malattia autoimmune alla tiroide per lo stress.
A volte, soprattutto nel lavoro, non è vero solo il detto homo homini lupus, ma anche quello corrispondente mulier mulieri lupa: può succedere che siano proprio le donne le peggiori nemiche tra di loro, invece di essere alleate, e comunque sono le donne a doversi difendere di più dagli attacchi provenienti da entrambi i sessi (e che con tutta probabilità potrebbe avvenire anche da un eventuale futuro genere neutro), per il fatto di essere più deboli, più vulnerabili, più insicure, meno competenti, meno affidabili.
A volte sembra che quella “e” alla fine della parola rappresenti una conquista, un baluardo da cui si ha paura di uscire, dopo tanti sforzi, per non trovarsi di nuovo vulnerabili e questa non è retorica femminista: è la realtà, è realtà di vita vissuta da tantissime donne, in particolare coloro che si trovano ad essere professioniste e mamme e discriminate per questo.
Inoltre, sul diploma di laurea c’è scritto “dottore in ingegneria” anche per le donne (sinceramente non ricordo cosa ci fosse scritto nell’attestato dell’esame di Stato, perché l’ho perso, ma mi ci gioco la casa che c’era scritto “ingegnere”, quindi perché dovrebbero essere le donne laureate in ingegneria a pretendere di cambiare le cose? Personalmente credo che abbiano già dato il loro contributo impegnandosi, studiando e facendo sacrifici, spesso in un ambiente ostile, perché aumenti la rappresentanza femminile in certe professioni, quindi non vanno condannate se vogliono chiamarsi come si sentono più a loro agio.
Così la pensa anche Licia Corbolante, che un po’ piccata cita in uno dei suoi articoli un battibecco avuto con la giornalista Monica Sargentini, in cui quest’ultima risponde “e perché mai dovrebbero decidere loro?” all’affermazione “va preso atto che maggior parte ing avv arch <50 anni NON vuole la forma F., a loro ultima parola”.
Stimo molto sia Monica Sargentini che Licia Corbolante, ma mi trovo più d’accordo con la seconda in questo caso: una donna sarà o no libera di chiamarsi come vuole, senza sentirsi vomitare addosso fiumi di odio e disapprovazione?
A questo proposito vorrei spezzare una lancia per Beatrice Venezi, che ha detto una corbelleria affermando che “direttrice d’orchestra” è sbagliato, arrogandosi il diritto di dare un parere da linguista quando linguista non è, ma prima di tutto è libera di definirsi come vuole, secondo ha contribuito anche lei, con il suo impegno e i suoi risultati, alla battaglia del femminismo. Ognuno contribuisce con i suoi mezzi e, senza nulla togliere a chi combatte in altri modi, lei ha fatto la sua come meglio ha potuto, credo, raggiungendo questi livelli e mantenendosi femminile, anche se non nel nome che ha scelto per descrivere la sua professione.
Licia Corbolante ha analizzato la questione del sessismo linguistico in diversi articoli del suo blog, tra i quali Linee guida contro il sessismo linguistico e Donne e grammatica. Questo è il libro di Cecilia Robustelli citato in uno degli articoli:
Quello che preferisco tra gli articoli di Licia Corbolante su questo tema è tuttavia questo, in cui si parla della “capitana” Carola Rackete, termine che funziona benissimo, pur non essendo troppo esatto (il termine giusto sarebbe stato “comandante”) perché in contrapposizione con l’altro “capitano” che remava in direzione completamente opposta a lei.
Quindi, capitana o capitano, ingegnera o ingegnere, l’importante è andare oltre questa coltre di disparità, che non accetta di vedere le donne in determinate posizioni, non accetta di vederle realizzate nel rispetto delle loro diversità e non accetta che si vogliano far chiamare come vogliono loro.
Per caso, dopo aver scritto il mio articolo, ho trovato questo di Marilisa Dalla Massara, che ha vissuto più o meno le mie stesse esperienze e le racconta in modo davvero simpatico e brillante. A differenza mia è arrivata a maturazione, raggiungendo quello che chiama l’ultimo stadio, che io non riesco ancora a raggiungere (però bisogna dire che non lavora più proprio come ingegnere/a/schwa, il che le garantisce un certo distacco).

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Le parole dividono il mondo… non saprei cosa dire, in effetti. A me andrebbe bene qualunque cosa, ma nei documenti ufficiali ne va scritta una sola.
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Hai ragione, invece la confusione, purtroppo, dilaga
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