La lingua inglese: vittima o carnefice?

Molto spesso assistiamo a vere e proprie battaglie condotte in difesa dalla lingua italiana, che si considera in pericolo data la sempre maggiore presenza di influenze provenienti dall’inglese.

A volte si tratta di calchi, cioè di nuovi significati attribuiti a parole italiane che sono falsi amici di parole inglesi. Consideriamo ad esempio l’avverbio “drammaticamente” o “in maniera drammatica”: mentre in italiano significa “tragicamente”, in inglese ha come significato principale “suddenly”, cioè “rapidamente/drasticamente”, un significato molto diverso, eppure mi è capitato di sentire un professore abbastanza famoso, tra l’altro una persona molto colta, mentre afferma che con le nuove cure i contagi diminuiranno “in maniera drammatica”.

Quanto a un altro medico, che stimo sempre tantissimo (infatti è il mio endocrinologo di fiducia), quando gli dissi che dopo la laurea avevo compiuto degli studi in traduzione dall’inglese all’italiano mi disse “Anche io sono bravo a fare questo tipo di traduzioni, infatti leggo molto dall’inglese”, però scrive sulla sua pagina Facebook che ha letto nelle novità molto “eccitanti” (invece di “entusiasmanti”) riguardo agli ormoni tiroidei, perché probabilmente in qualche studio ha letto “exciting”. Il problema è che in inglese “excite” non significa rendere qualcuno eccitato, bensì renderlo entusiasta.

A volte si tratta proprio di neologismi, come l’espressione “smart working”, che sembra inglese, ma non lo è: infatti nei paesi angolsassoni il lavorare da casa si dice “home working” o “remote working”.

Un processo simile è quello che ha condotto i tedeschi a chiamare “handy” il telefono cellulare, una parola che viene chiaramente dall’inglese, ma che in questa lingua non esiste.

Dobbiamo ritenere l’italiano in pericolo a causa dell’invasione di tanti termini che provengono dall’inglese?

L’inglese è vittima o carnefice, fagocitato o fagocitante come Alien?

A parte il problema dei prestiti con slittamento dei significati, dovuti all’eccessiva frequentazione con lingue diverse dalla nostra, concentriamoci sui neologismi di origine “aliena”: se dobbiamo giudicare il livello di influenzabilità dalla quantità di “forestierismi” presenti in italiano e in inglese siamo decisamente in svantaggio! L’inglese è infatti in assoluto la lingua che ha il vocabolario più vasto, con circa 500.000 termini di linguaggio corrente e 300 mila di linguaggio tecnico.

Le parole della lingua italiana non sono mai state censite, ma una cifra indicativa può essere fornita dal vocabolario più completo: l’opera lessicografica che, per ora, registra il maggior numero di vocaboli è il «Grande dizionario italiano dell’uso» in 6 volumi (più il supplemento «Nuove parole italiane dell’uso») diretto da Tullio De Mauro, e il numero è di circa 250.000 lemmi, tra cui però molte sono parole tecniche o rare o di ambiti specialistici.

È tuttavia impossibile stabilire un numero esatto di lemmi per tutte le lingue, poiché sono in continua evoluzione.

Tra le lingue di grande diffusione, l’inglese, pur essendo attualmente lingua franca, è verosimilmente la più aperta all’ingresso di nuovi vocaboli di origine straniera, a partire dalle lingue romanze (latinizzazione).

Esistono delle parole francesi che sono state adottate dall’inglese e hanno subito ciò che in botanica si chiama “sviluppo interrotto”, cioè il fenomeno secondo il quale dopo un travaso, la pianta non cresce più per un certo periodo, mentre un’altra della stessa età continua a svilupparsi normalmente.

I forestierismi francesi hanno quindi conservato la forma con la quale erano stati introdotti nel Medioevo, in quanto isolati in un contesto linguistico a loro estraneo, mentre invece i loro corrispondenti nella lingua francese hanno continuato a cambiare: esempi di questa metamorfosi non avvenuta in inglese sono i termini default in inglese (défaut nell’odierno francese), o subject in inglese (sujet in francese).

Il significato delle parole mutuate del francese (che in Francia rimase sostanzialmente immutato), è invece cambiato con il loro utilizzo nell’inglese, a causa della competizione con altri termini anglosassoni: ad esempio per “maiale” esistono due parole diverse: pig è la bestia viva, che diventa pork quando è cucinata. Esistono diverse altre coppie sinonimiche, in cui il termine usato mentre si mantiene un registro più basso è di radice germanica (anglosassone) mentre quello usato nel registro alto ha radice latina (francese), ad esempio si usa ox per “bue”, cow per “mucca” e calf per “vitello”, ma si usa beef (dal francese bœuf, “manzo”) per indicare la “carne di manzo”, si usa freedom per “libertà”, ma liberty per “idea di libertà”, gut per “intestino”, ma intestinal per l’aggettivo “intestinale”, strength per indicare “forza” e force per indicare la forza in fisica.

Altri esempi di assorbimento da parte dell’inglese di parole straniere sono: “paparazzi” dall’italiano, “emoji” dal giapponese, “klutz” dall’yiddish, “siesta” dallo spagnolo, “guru” dall’hindi.

Il motivo per cui è impossibile stabilire l’esatta quantità di lemmi di una lingua proprio è che le lingue sono in continua evoluzione, sono quindi come degli organismi che ogni giorno mutano impercettibilmente e soprattutto sono in continuo rapporto simbiotico tra di loro.

Molti sono gli sforzi tesi alla definizione di una lingua unica, perfetta e stabile, ad esempio quello di Dante, che nel De vulgari eloquentia fissa le condizioni e le regole dell’unica lingua perfetta concepibile, l’italiano della lingua dantesca: assumendo il ruolo di restauratore della lingua perfetta dopo la caduta di Adamo, Dante mette in rilievo la forza della molteplicità delle lingue, la loro capacità di rinnovarsi, di mutare nel tempo.

I teorici della lingua perfetta e universale erano spinti anche dalla necessità di commerciare con altri popoli, pensando al linguaggio gestuale con il quale gli esploratori furono costretti ad avere le prime operazioni commerciali con abitanti di terre lontane.

Umberto Eco, nella sua opera “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea” spiega come secondo la Bibbia la superbia degli uomini con la costruzione della Torre di Babele ci abbia condannati alla diaspora in diversi paesi, con la punizione di parlare lingue incomprensibili tra un paese e l’altro, chiarisce che “il sogno di una lingua perfetta o universale sia quindi sempre stato visto come risposta al dramma delle divisioni religiose, politiche o anche alla difficoltà dei rapporti economici” e che i vari progetti di una lingua perfetta non si sono affermati ma proprio grazie ad essi abbiamo molte teorie riconosciute (tassonomia delle scienze naturali, linguistica comparata,…)”.

Un importante esempio di azione di regolarizzazione è quello rappresentato dalla riforma effettuata sull’alfabeto cirillico serbo, per cui il serbo è una delle poche lingue naturali (senza considerare quelle artificiali come l’esperanto) in cui ogni lettera corrisponde a un suono preciso e le parole vengono scritte pressoché come vengono dette.

Non è un caso che il padre della terminologia, l’ingegnere austriaco Eugen Wüster, sia stato un entusiasta cultore dell’esperanto, nell’ambito del suo sforzo di riuscire a classificare in modo univoco i termini, associandoli a precisi significanti.

Concludo con una riflessione riguardo a un’abitudine che trovo davvero odiosa: quella di usare “piuttosto che” in senso disgiuntivo, il che accade soprattutto in contesti in cui l’oratore vuole apparire sofisticato e non si rende conto di stare commettendo un errore.

Qualche giorno fa ho partecipato a un webinar sulla realtà aumentata, insomma un argomento molto all’avanguardia e tecnologicamente avanzato, e dopo mezz’ora dai saluti iniziali avevo già contato il “piuttosto che” usato in senso disgiuntivo circa 10 volte, da diversi relatori, una media di uno ogni 3 minuti… non esagero! Erano al limite del tic liguistico, come se fosse una gara a chi apparisse più sofisticato usandolo più volte.

Solo dopo mi sono accorta che i relatori affermano di far parte di un Competence Center nato su iniziativa del Politecnico di Milano e quindi ho capito il perché di tale impressionante frequenza, in quanto sembra che tale abitudine sia più diffusa nell’Italia settentrionale, in particolare in Lombardia.

Ho letto un articolo tratto dalla “Grammatica per cani e porci” di Massimo Birattari, in cui l’autore ribadisce che l’utilizzo “disgiuntivo-inclusivo” del “piuttosto che” è assolutamente sbagliato e dà luogo a pericolose ambiguità, ma afferma anche “non facciamone una malattia se questa accezione diventasse prevalente”. 

D’altronde in italiano esistono già numerosi termini polisemici, termini addirittura caratterizzati da enantiosemia, cioè da significati che sono uno l’opposto dell’altro (ad esempio tirare, cacciare, feriale, ospite), esistono le contaminazioni ed esistono le irregolarità, proprio perché è una lingua naturale, non artificiale, quindi viva.

Volendo poi parlare della situazione dell’inglese, secondo me, oltre ad essere caratterizzata dalla stessa affascinante irregolarità (anche di più rispetto all’italiano forse), quanto potrà soffrire nel sentirsi utilizzata così spesso a sproposito, in modo maccheronico, con pronunce sbagliate, insomma quanto soffrirà nell’avere come cugino il Bad Simple English?

Evviva quindi la bellezza irregolare delle lingue, diverse, intersecate, avvinghiate, dolcemente complicate, ma evviva anche quegli sforzi di “normalizzazione” che ci fanno guadagnare in chiarezza e semplicità e aiutano la pratica operativa… considerando però tali azioni normalizzatrici come un ausilio prezioso, non come la soluzione definitiva ai problemi che ci affliggono più o meno dai tempi di Adamo 😉

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